Fiat, dopo aver annunciato di uscire da Confindustria, ha deciso di disdire gli accordi sindacali a partire dal primo gennaio 2012. Alla fine abbiamo finalmente scoperto gli obiettivi del piano industriale di Marchionne: non rilanciare la storica azienda di Torino come moderna e innovativa multinazionale dell'auto, ma più cinicamente ridurla a una sorta di catena di fabbriche "cinesi", con meno diritti possibili e minori costi per gli emolumenti dei lavoratori. E il modello di fabbrica che Marchionne vuole imporre in Italia (una sorta di prendere o lasciare) è quello di Pomigliano. Noi l'avevamo previsto: dispiace che sindacati come Cisl e Uil si siano fidati, e che il governo di allora sia stato completamente assente, con il ministro del Welfare (il flaccido Sacconi) impegnato solo a scatenare il suo livore contro la Cgil.
Pensare in un'epoca come questa di riuscire a competere su un mercato come quelle delle auto puntando sul taglio dei costi a scapito della qualità e dell'innovazione, è assolutamente pazzesco. E i dati di mercato confermano quanto affermiamo: mentre la concorrenza tiene o addirittura cresce, Fiat crolla in Europa, e negli Stati Uniti (dove ha rilevato Chrisler) la situazione non è migliore. Questo perché da parte di Fiat si assiste ad un'assoluta incapacità, almeno negli ultimi 10 anni, di fabbricare e collocare sul mercato automobili innovative e ad alto valore aggiunto. Ed è paradossale, quanto emblematico, che nel progetto della Regione Piemonte di istituire una piattaforma tecnologica a sostegno della ricerca industriale nel settore auto, Fiat non sia presente. E forse già questo è un indice di quanto a Marchionne e a Fiat stiano a cuore non solo concetti come qualità e innovazione, ma anche gli interessi dell'Italia. Un altro caso spinoso a cui il governo Monti dovrà dare risposte. Al più presto, visto che già domani chiude uno degli stabilimenti Fiat.