Quando il "brand" Milano fu presentato, non ci si risparmiò di certo in lodi ed autocelebrazioni: "Come le più importanti mete turistiche, anche Milano da oggi ha le sue magliette e i suoi gadget, con tanto di marchio ufficiale, registrato dal Comune" scrisse il "Corriere".
E l'assessore al Turismo Alessandro Morelli (Lega): «Finalmente come accade a New York, Madrid e in tutte le grandi capitali del mondo, i turisti che giungono a Milano potranno acquistare e portare via con sé un ricordo all'altezza dell'immagine della nostra città, capitale indiscussa della moda e del design».
I prodotti avrebbero poi dovuto presentare "un alto standard qualitativo e una particolare attenzione ai tratti di creatività grafica e di design, agli aspetti innovativi dei materiali utilizzati, di processo di filiera, di attenzione all'ambiente e alle disabilità".
E soprattutto "nella fase di realizzazione, un ampio spazio doveva essere dato alla valorizzazione delle eccellenze produttive presenti sul territorio, con il coinvolgimento di aziende milanesi e nazionali".
Peccato che a tutte queste belle parole non abbiano fatto seguito i fatti. Il consigliere PD Pierfrancesco Maran ha infatti scoperto che t-shirt, felpe, cappellini e perfino le palle per addobbare gli alberi di Natale, sono state realizzate con marchi di fabbrica dell'Estremo Oriente, Cina in particolare. E' un buon modo per promuovere Milano? si domanda Maran. E chiede nello stesso tempo le dimissioni dell'assessore Morelli, il quale non si scompone: «Sono le leggi di mercato» dice.
Il suo partito però in passato aveva organizzato fiaccolate contro la comunità cinese: i cinesi quindi non vanno bene, ma i loro prodotti sì. Pare di essere di fronte proprio ad una bella ipocrisia. Difatti, Matteo Salvini, capogruppo del Carroccio in Comune, sulla vicenda è meno conciliante: «Ringraziamo il PD per l'attenzione alle nostre iniziative. La loro segnalazione non va ignorata. Si tratta ora di richiamare la società licenziataria e di imporre che i gadget siano prodotti in Lombardia». E chissà che ne penserebbero anche i Giovani Padani...